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Noi, Bambine Ad Auschwitz

Andra Bucci and Tatiana Bucci

Highlights

  • convivono con i segni della cultura ebraica di una mamma, Mira Perlow, attenta e rigorosa, punto di riferimento costante nel loro lungo cammino. Il padre, Giovanni Bucci, lavora in mare, imbarcato su navi che solcano gli oceani, in navigazione per lunghi periodi, ma in contatto attraverso gli strumenti di allora con la sua famiglia.
  • Il piccolo Sergio non aveva avuto esitazioni: di fronte all’inganno dei nazisti, alla parola mamma, fa un passo avanti, illudendosi, felice, di poter tornare tra le braccia di chi lo aveva messo al mondo. Quanti rimpianti nei cuori delle autrici per non essere riuscite a impedire quella mossa, a proteggere il cuginetto, a evitare che se ne andasse senza poter tornare. Il valore di una vita che vale tutte le vite e si lega alla testimonianza delle sorelline: ne parlano come se fosse un impegno, un messaggio da tramandare, una storia che deve essere difesa dai rischi dell’oblio e della rimozione.
  • «Siamo state tutelate e protette da una blockova. Non ricordiamo nulla di lei, né il nome né il volto, neppure i suoi tratti somatici».
  • Il mio nome è Liliana Bucci, ma tutti mi chiamano Tatiana. Sono nata a Fiume il 19 settembre 1937 e sono una delle pochissime bambine sopravvissute al campo di sterminio di Auschwitz. Io sono Alessandra Bucci, ma da sempre tutti mi chiamano Andra. Sono nata a Fiume il 1° luglio 1939, e anch’io, come mia sorella Tati, sono una delle pochissime bambine sopravvissute al campo di sterminio di Auschwitz. Una storia che viene da lontano Dalla Russia a Fiume La nostra è una lunga storia, che inizia lontano. Nostro padre, Giovanni Bucci, era nato a Fiume in una famiglia cattolica di origine istriana. Conobbe nostra madre, Mira Perlow, nel 1928, si innamorarono e sette anni dopo si sposarono. Mira era arrivata a Fiume ancora bambina. Era nata nel 1908 in una famiglia di origine ebraica, da Moise Perlow e sua moglie Rosa, la nostra adorata nonna Rosa, con la quale siamo cresciute fino a quando Auschwitz non ce l’ha strappata via. La nonna era nata nel 1883 in una famiglia, i Farberow, che all’epoca viveva a Vidrinka, al confine tra Ucraina e Russia. Secondo il loro passaporto, all’epoca in cui nacquero Rosa e poi sua figlia Mira, Vidrinka doveva appartenere alla Russia. E il russo (insieme ovviamente allo yiddish) era la lingua che si parlava in casa quando la nonna era bambina.
  • Fiume,
  • la mamma ci ha cresciute trasmettendoci i principi della tolleranza e del rispetto, insegnandoci a vedere le cose e le nostre stesse vite con una prospettiva aperta.
  • La nonna era dunque cattolica e molto praticante, forse anche per questo non ci ha amate tanto: non ha mai accettato il matrimonio tra papà e mamma, una donna ebrea che entrava in famiglia. E lo ha dimostrato in molte occasioni.
  • Ha saputo della nostra deportazione mentre era prigioniero. I suoi familiari gli scrissero per informarlo della sorte che ci era toccata. Chissà cosa avrà pensato o provato.
  • «Mandate un pensiero al vostro adorato papà». Proprio quel gesto e quella foto ci hanno permesso di ritrovare la strada di casa, subito dopo la fine dell’orrore di Auschwitz.
  • D’estate andavamo al mare con la mamma e la nonna. Sempre nello stesso posto, una spiaggia di ciottoli e non di sabbia, subito fuori città.
  • Il primo segnale fu proprio l’italianizzazione del nostro cognome. Papà fu chiamato dal suo capo che gli impose di modificarlo da Bucich a Bucci, altrimenti non avrebbe più navigato.
  • nostri parenti vennero però tutti catturati nel novembre 1944 su delazione di alcuni italiani.
  • Sappiamo che siamo partite per Auschwitz il 29 marzo 1944 perché la mamma ce lo ha raccontato. È quindi nella seconda metà del marzo 1944 che i nazisti irrompono in casa nostra.
  • Il primo ricordo che abbiamo di quella sera sono i rumori, le urla e il chiasso che provengono dalla stanza accanto a quella dove dormiamo. Poi la mamma che entra nella camera da letto, tutta trafelata, un’immagine nitida, scolpita nella memoria. Ci veste in fretta: dobbiamo muoverci, andare via. Domandiamo: dove? perché? Ma neppure lei ha una risposta a queste domande.
  • Una cena mai consumata.
  • La seconda immagine, forse ancora più forte e nitida, è quella di nostra nonna.
  • Siamo stati deportati grazie all’aiuto che i fascisti italiani davano ai nazisti.
  • Susak,
  • Vi furono anche numerose uccisioni, che avvenivano generalmente di notte, spesso per impiccagione e raramente per fucilazione.
  • Alla mamma, che con insistenza fa presente la religione di papà, il soldato risponde: «Non importa. Genitore ebreo, figli ebrei».
  • Stiamo tutti in silenzio, non c’è confusione, piuttosto paura, preoccupazione di sapere dove stiamo andando. È un silenzio che non è un silenzio.
  • L’arrivo è soprattutto rumore. È il 4 aprile 1944. Il treno si ferma fuori del campo dove ci avrebbero portate, che poi scopriremo essere Birkenau, la grande fabbrica della morte nel sistema concentrazionario di Auschwitz. Un impianto dove si uccidono centinaia di migliaia di uomini e donne. Le persone si chiamano, si cercano.
  • La mamma ci tiene strette a lei. Non vediamo Sergio. Forse è stato già separato dalla zia e messo nella fila degli uomini, forse no.
  • Alla Sauna dobbiamo dare le nostre generalità e subito dopo spogliarci. Siamo nude, noi come le persone adulte.
  • È un vero inferno di rumori, di odori; la paura si respira nell’aria.
  • Prima Andra, il numero è 76483; poi Tati, il numero è 76484. Nel nostro ricordo di bambine non proviamo dolore. Piccole punture di un ago che si infila nelle nostre braccia, segnando un numero che ci accompagnerà per tutta la vita. Andra ha imparato il suo numero a memoria quasi subito, Tati no, ha sempre dovuto leggersi il braccio per poterlo ripetere.
  • La vera fotografia che ci accompagna ancora oggi è quella di noi due sempre attaccate l’una all’altra, come per proteggerci a vicenda. Sergio non lo vediamo. Non entra con noi nella baracca. Non sapremmo dire quando, ma è comunque arrivato anche lui.
  • La morte è ovunque intorno a noi. Eppure, stranamente, non ne abbiamo paura e ci abituiamo presto a questa realtà parallela rispetto al mondo. Vediamo in continuazione cadaveri di adulti. Corpi ammassati in un angolo, ammucchiati in una baracca, trasportati dagli altri prigionieri. Ma ci sembra una cosa ordinaria. E giochiamo intorno a quelle che Tati chiama le «piramidi di cadaveri». Bianchi, scheletrici, veramente impressionanti. Ne abbiamo entrambe un ricordo vivido.
  • Girando per il campo, oltre ai mucchi di cadaveri vediamo, da lontano, il camino dei crematori che sputa continuamente fiamme e fumo. Sempre, notte e giorno. Riusciamo a vederlo anche dall’esterno della nostra baracca. Il fumo si sposta seguendo il vento. Sappiamo che da lì «si esce». Anche il pensiero di «uscire dal camino» ci sembra normale. Non ci impressiona. Dopo un po’ capiamo l’utilizzo che ne viene fatto. Qualcuno ce lo deve avere spiegato. O forse lo abbiamo sentito dalle blockove, o da qualche bambino più grande.
  • La mamma però era così. Per tutto il tempo in cui anche lei è rimasta prigioniera ad Auschwitz non ci ha mai perso di vista. Ancora oggi non sappiamo come abbia fatto, eppure è riuscita anche ad andare a trovare la sua bambina all’ospedale.
  • Per chi non lo sapesse, Birkenau era un campo di sterminio nel quale i pochi prigionieri internati – quella piccola percentuale di persone che, scesa dai trasporti, non era mandata subito nelle camere a gas – venivano chiamati dai nazisti «cadaveri in vacanza».
  • schiavi da usare e consumare fino allo sfinimento prima di essere assassinati.
  • «Ricordati, il tuo nome è Liliana Bucci». «Ricordati, il tuo nome è Andra Bucci.» Lo faceva con uno scopo preciso, ma lo avremmo capito solo in seguito.
  • Mamma voleva tenerci attaccate alla nostra vita reale, quella fuori dal campo.
  • I tedeschi volevano dieci maschi e dieci femmine da portare via. Noi non avremmo dovuto farci avanti, ci disse, per nessuna ragione; dovevamo rifiutare l’offerta. Ma non aggiunse alcuna spiegazione.
  • «Chi di voi vuole andare a trovare la mamma?». Noi due rimanemmo immobili come statue. Sergio invece si fece avanti. Tati ricorda che avanzò di un passo fuori della fila, Andra che alzò la mano.
  • I due giornalisti si imbatterono casualmente nella storia drammatica dei venti bambini assassinati dopo avere fatto da cavie umane nel corso delle terribili sperimentazioni pseudoscientifiche del dottor Kurt Heissmeyer, l’ufficiale medico nazista che torturò Sergio e i suoi compagni. Tassello dopo tassello, con molta pazienza e perseveranza riuscirono a ricostruire tutta la vicenda.
  • costretti a subire prima le iniezioni di bacilli tubercolari e poi l’asportazione dei linfonodi ascellari (ci sono anche le foto, scattate dai nazisti per documentare la pratica, in cui Sergio e i suoi compagni, rasati e a torso nudo, hanno il braccio destro
  • dell’ascella). Al termine della sperimentazione tutte e venti le piccole cavie furono assassinate, per impiccagione, nella notte tra il 20 e il 21 aprile 1945 nei sotterranei della scuola Bullenhuser Damm di Amburgo.
  • Poi arriva il giorno della nostra liberazione. È il 27 gennaio 1945.
  • Un soldato è seduto sul cofano. Ha il berretto con la stella rossa. Andra lo ricorda benissimo. Ha una tavoletta di legno sulle ginocchia, sopra la quale sta tagliando un pezzo di salame. Ci guarda, ce lo offre. Un gesto spontaneo, naturale, ma impensabile a Birkenau. Ci siamo noi due, i nostri piccoli compagni di prigionia e questo soldato russo che ci offre il salame. Questa per noi è la liberazione.
  • Dopo quella della liberazione del campo, l’immagine immediatamente successiva è il viaggio in treno verso la capitale ceca, dove arriviamo nella primavera del 1945. Andra ricorda persino il sottopassaggio della stazione, tutto rivestito di mattonelle bianche. A Praga ci portarono in un orfanotrofio. Un posto che non siamo più riuscite a ritrovare, anche quando, molti anni dopo la guerra, Tati è tornata lì a cercarlo
  • Lingfield abbiamo ricominciato a vivere.
  • Qui creò una scuola per i bambini delle famiglie degli internati, di cui si scrisse molto sui giornali inglesi. Il suo rilascio avvenne nel 1942 su pressione di Anna Freud, che la volle a lavorare con sé a Londra.
  • Trovarono la mamma con il metodo più semplice: chiamando tutti i (pochi) Bucci presenti nell’elenco telefonico.
See you soon?
© 2025 Alessandro Desantis