La Storia insegnava che, quando toccava in sorte un cataclisma, si doveva ubbidire a un unico criterio: vivere. Vivere e durare. Sopravvivere, come uomini dell’avvenire. Niente altro, niente di più, niente di meno.
Ma la democrazia, in fondo, non può che parlare. Vive della parola e per la parola. In tempi di crisi, però, i popoli non domandano di essere propagandati, domandano di essere comandati. Il tempo delle inutili discussioni deve cedere, allora, al tempo dell’obbedienza.
L’aratro volge al sole le energie della terra, il solco accoglie il seme annientando l’aratro, il seme germoglia annientando il solco. Il seme dà fiore, il frutto divora il seme e l’uomo raccoglie e consuma il frutto annichilendo tutto ciò che lo ha preceduto.
Lui non si stanca mai di ripeterlo: la moltitudine è femmina, necessita di qualcuno che la sappia sedurre, sottomettere, dominare. Le masse non sanno e non vogliono pensare, hanno solo bisogno di poter sospendere la propria incredulità, hanno bisogno delle arti della scena.
L’uomo d’ingegno può comprendere l’idiota, il raffinato capisce il selvaggio. Purtroppo, però, non vale il reciproco. E questo decide del suo svantaggio.
Le parole sono pietre non perché feriscano ma perché giacciono, inerti, al termine della loro breve e fatua parabola.
“Non dimentichi, quando sarà buio, di accendere la lampada sulla mia scrivania e di lasciarla accesa tutta la notte. Alla gente non importa davvero quel che decido per loro, gli basta sapere che esisto.”