In un qualche pomeriggio triste di fine secolo e millennio, in una stanza ben ammobiliata e male illuminata dallo schermo azzurrognolo di un televisore sintonizzato su di un canale morto, abbiamo smesso di credere nella Storia.
Per riuscire a guardare fino in fondo nell’abisso è necessario vedere l’abisso dentro di sé.
Questa è la mia tesi: i movimenti, i partiti e soprattutto i leader politici che oggi sfidano la democrazia nella forma che noi abbiamo conosciuto fino a ora, cioè la piena democrazia, la democrazia parlamentare liberale, teorizzando o praticando formule intimamente contradditorie quali quella di “democrazia autoritaria”, siano essi italiani, spagnoli, francesi, tedeschi, brasiliani o statunitensi, non discendono dal Mussolini fascista. Essi discendono, invece, dal Mussolini populista.
Mussolini non fu soltanto l’inventore del fascismo, il fondatore dei Fasci di combattimento e del Partito nazionale fascista; fu anche l’ideatore di quella prassi, comunicazione e leadership politica che noi oggi chiamiamo populismo sovranista.
Benito Mussolini è, in questo momento, un randagio in cerca di una nuova casa, un attore in cerca di un pubblico, un avventuriero con tutta la flotta bruciata alle spalle e di fronte a sé un muro d’odio alzato dagli ex compagni socialisti.
La violenza rimarrà sempre il bagliore primigenio del fascismo e lo accompagnerà in ogni momento della sua storia, fino alla fine, fino al crepuscolo apocalittico della Seconda guerra mondiale. La violenza, alfa e omega del fascismo.
Mussolini – è vero, verissimo, indubbio – stuprò l’Italia con gli Arditi divenuti squadristi, ma non si limitò a stuprarla, la sedusse anche. Le due azioni furono simultanee: il futuro duce sedusse l’Italia mentre i suoi cani della guerra la stupravano.
quella peculiare forma di violenza fascista divenne, purtroppo, a sua volta seducente, divenne un oggetto di desiderio politico per moltissimi esponenti della piccola borghesia nazionale che in essa, pur restandone inorriditi, vagheggiavano la soluzione di una crisi sociale altrimenti irrisolvibile.
Il linguaggio del Mussolini giornalista si voleva libero, sfrenato, irrelato, emancipato da ogni obbligo di coerenza: i suoi articoli non manifestarono mai alcuna preoccupazione per la coerenza storica con quello che era stato detto da lui stesso un giorno prima, un mese prima, un anno prima, né con ciò che avrebbe affermato il giorno seguente e quello successivo; e nessuna preoccupazione di coerenza ontologica, cioè relativa all’ancoraggio delle parole alla realtà.
Perché se io sono il popolo e il popolo sono io, chiunque non sia con me, chiunque non appartenga al popolo, sarà contro il popolo, fuori dal popolo, suo nemico.
il fondatore del fascismo dice di se stesso “io non faccio politica, io faccio l’antipolitica”, slogan di un secolo fa ancora ampiamente circolante nel nuovo millennio;
Si è spesso sottolineato il tatticismo assoluto di Mussolini, il suo spregiudicato opportunismo, il pragmatismo cinico di un leader pronto a ogni trasformismo e camaleontismo, a qualsiasi cambio di rotta, di posizione, di alleanze.
La terza legge del populismo mussoliniano impone, cioè, un nuovo tipo di leader, il condottiero che guida le masse non precedendole ma seguendole.
Benito Mussolini diceva di sé: “Io sono l’uomo del dopo.” E lo diceva con orgoglio, vantando la propria scaltrezza politica. Io sono l’uomo del “dopo”, cioè io arrivo un attimo dopo sulla scena dell’evento politico. Non precedo, seguo.
Nel volgere di pochi anni, Benito Mussolini tradì tutti: i pacifisti, i socialisti, i repubblicani, D’Annunzio che lo aveva ispirato, i liberali giolittiani che lo avevano portato in Parlamento, i camerati squadristi della vigilia che gli avevano spianato la strada a forza di manganellate. Soprattutto tradì se stesso, diventando l’uomo che aveva odiato da ragazzo.
un leader populista pratica una politica della paura; un leader populista non si appella quasi mai alle speranze del suo popolo ma quasi sempre alle sue paure.
Tutto è riconducibile a un unico problema. Quell’unico problema è riducibile a un nemico. Quel nemico viene individuato in uno straniero, straniero invasore. Lo straniero invasore è uccidibile. Problema risolto.
Non ci si può nascondere, infatti, giunti a questo punto, che cent’anni fa il populismo fascista individuò il “nemico semplificatore” nel socialista allo stesso modo in cui oggi il populismo sovranista lo individua nell’immigrato.
La vocina seducente e maligna del populismo sussurra: non ti devi guardare alle spalle, non devi scrutare con terrore il cielo sopra di te, il bosco di fianco a te. La morte non arriva da tutte le parti, invisibile, ignota, intangibile come nelle trincee. Devi solo guardare davanti a te. Lì c’è il tuo unico problema, il tuo nemico, lo straniero invasore: invece qui, al tuo fianco, ci sono io, il fascista col manganello. Tutta la realtà si riduce a questo.
Qui non è in gioco il valore estetico della bellezza del corpo o la sua prestanza: è il fatto di anteporre la comunicazione fisica, corporale, quasi viscerale a ogni tipo di comunicazione intellettuale incentrata sul ragionamento, sulla riflessione e sull’analisi.
la democrazia non è figlia del caso ma nemmeno della necessità; non è un dono del cielo, è una conquista; la storia della democrazia è, fuor di ogni dubbio, la storia della lotta per essa.
La democrazia è, invece, più simile alla pianta della vite e come la vite richiede cura costante, sapiente, richiede amore e devozione. La vite deve essere innestata, potata, innaffiata, protetta dai parassiti e legata ai supporti da mani gentili e forti. È un lavoro quotidiano, questo: il lavoro di una vita. Soltanto allora quella pianta fragile e meravigliosa darà il dolce, inebriante vino della democrazia.